Il preamplificatore microfonico è il "primo outboard" che il suono trasformato in segnale elettrico incontra. Prima di esso troviamo solo il microfono con il quale l’artista si esprime. Possiamo dunque immaginare il cavo che collega il microfono al preamplificatore come il confine che
separa l’artista dal tecnico del suono. Dal preamplificatore in poi, tutta la catena audio sarà "dominio" del tecnico del suono, fino ad arrivare alle casse monitor davanti alle quali l’artista ed il tecnico si incontreranno per valutare insieme il risultato.
Il compito del preamplificatore è quello di prelevare i bassissimi livelli di segnale generati da un microfono e innalzarli fino ai livelli ottimali affinché essi possano essere successivamente elaborati.
Sul mercato si trovano moltissimi modelli di microfoni, ognuno dei quali ha caratteristiche diverse adatte ad un particolare utilizzo. Indipendentemente dal tipo di microfono, si ha però l’esigenza di doverlo preamplificare: bisogna infatti rafforzare il piccolissimo livello elettrico generato dal microfono prima di poterlo far giungere ad un amplificatore vero e proprio.
Volendo elencare alcune tipologie di microfoni utilizzati nel settore audio professionale, troviamo:
- microfoni a nastro, che hanno come caratteristica principale quella di avere una bassissima sensibilità e quindi di richiedere una notevole preamplificazione; sono microfoni che erano diffusi negli anni ’60, ma che ancora oggi mantengono il loro fascino;
- microfoni a condensatore, che hanno come caratteristiche principali una grande sensibilità e linearità, un’ottima risposta alle frequenze medio alte e alte e un’ottima risposta ai transienti;
- microfoni dinamici, molto versatili e utilizzati spesso in ambito live o per microfonare gli amplificatori.
Per capire come funziona un preamplificatore, andiamo a sviscerare la sua architettura interna.
Possiamo cominciare dicendo che un preamplificatore è composto fondamentalmente da tre sezioni distinte: un circuito di ingresso, capace di interfacciarsi con il microfono ed eventualmente alimentarlo, uno stadio intermedio di guadagno, ed infine uno stadio di uscita capace di pilotare opportunamente la linea.
Ognuna delle tre sezioni necessita di una particolare cura per ottenere un risultato ottimale ed è facilmente immaginabile che, nel caso in cui una delle tre sezioni non sia all’altezza della qualità richiesta, il risultato finale avrà la qualità dello stadio peggiore essendo le tre sezioni in cascata tra di loro.
Approfondiamo ora il discorso analizzando la tecnologia utilizzata nelle tre sezioni menzionate.
Per quanto riguarda il circuito di ingresso, fino a non molto tempo fa, per accettare i segnali bilanciati dei microfoni professionali si utilizzavano i trasformatori, che garantivano l’isolamento galvanico e permettevano di avere un primo step di guadagno.
Di contro, questi dispositivi avevano diverse caratteristiche negative. Meccanicamente erano molto ingombranti e pesanti e, se si voleva una qualità elevata, erano costosissimi. Inoltre, indipendentemente dalla qualità, non si poteva prescindere dal fatto che alla base della scelta di utilizzare un trasformatore c'era comunque la consapevolezza di accettare l’introduzione delle non linearità, delle distorsioni di fase e delle distorsioni armoniche causate dal trasformatore stesso.
Per venire incontro alle moderne esigenze di prestazioni sempre più elevate, difficilmente raggiungibili dai trasformatori, si è arrivati a sostituirli con "circuiti allo stato solido" capaci di ricevere "correttamente" i segnali bilanciati generati dai microfoni.
Ci sono diverse architetture di ricevitori bilanciati che permettono di ottenere ottimi risultati, e i produttori possono quindi trovare il circuito più adatto cercando il giusto compromesso costo/qualità in base al target a cui si rivolgono.
In realtà, ogni tecnologia ha sempre dei vantaggi e degli svantaggi che devono essere messi sul piatto della bilancia. Nel caso dei circuiti allo stato solido lo svantaggio da accettare è la mancanza dell’isolamento galvanico (garantito prima dai trasformatori). Alcune delle conseguenze della mancanza di isolamento galvanico sono il rischio di introdurre i noti "ground loop" (loop di massa), che possono generare fastidiosi rumori di fondo difficili da eliminare, nonché il rischio di poter bruciare il preamplificatore nel caso si presentino delle scariche elettriche o disturbi ad alta energia provenienti dall’esterno (come ad esempio delle scariche elettrostatiche).
Non bisogna però dimenticare i vantaggi di questa tecnologia, che risolve i problemi dei trasformatori in quanto permette di ottenere un’ottima larghezza di banda e una bassa distorsione armonica e di fase.
Inoltre, volendo mettere in luce un altro punto di forza dei circuiti allo stato solido, va sottolineato come essi possano accettare alti livelli di segnale senza introdurre saturazione, e quindi permettere di gestire il guadagno del preamplificatore nell’intero range del segnale di ingresso senza dover utilizzare una rete passiva (il cosiddetto PAD) che degrada notevolmente il segnale ed il rapporto segnale/rumore. Ad esempio, nella mia esperienza di ingegnere in Sonum, abbiamo sfruttato questo aspetto nella progettazione del preamplificatore H2O, dove la funzione PAD viene indicata con la terminologia PAD attivo; in questo caso, infatti, l’abilitazione del PAD non interviene con il tipico inserimento di una rete passiva, bensì andando a modificare l’architettura del preamplificatore abbattendo semplicemente il suo guadagno. Una tecnica che non sarebbe stata attuabile con un ingresso a trasformatore, il quale presenta un limite fisico di saturazione che non può essere superato.
Analizziamo ora lo stadio intermedio di guadagno. Ovviamente il giusto guadagno che il preamplificatore deve avere, dipende dal campo di utilizzo. Un preamplificatore microfonico da studio dovrà portare il livello del segnale ricevuto dal microfono ad un gradino molto più alto rispetto ad un preamplificatore microfonico per uso consumer. In uscita dal preamplificatore il livello di segnale dovrà arrivare al cosiddetto livello di linea e, nello specifico, al livello di linea professionale stabilito nello standard +4 dBu (International studio level: Level in dB=+4 dBu; Voltage RMS=1.228 V; Voltage peak-to-peak=3.47 V).
Dunque, partendo dal piccolissimo segnale elettrico restituito da un microfono, è necessario avere un guadagno che dovrebbe arrivare a circa 50-60 dB per ottenere il livello di uscita corretto. Spesso i preamplificatori superano questa specifica in modo da garantire margine di gestione e poter regolare la preamplificazione a livelli di guadagno più bassi del massimo disponibile, con i vantaggi che ne conseguono. Ci sono però dei casi in cui effettivamente sono richiesti guadagni più alti, come ad esempio nell’utilizzo dei microfoni a nastro o in alcune registrazioni di ambiente molto particolari.
Completiamo il discorso prendendo in esame il circuito di uscita.
Una volta che il segnale microfonico è stato portato al giusto livello è necessario interfacciarlo con il dispositivo a valle.
Il layer fisico utilizzato per la connessione tra i due dispositivi dipende fortemente dal campo di utilizzo. Considerando il livello di linea (al quale ormai ci troviamo) in ambito consumer troviamo connettori relativamente semplici, senza grosse pretese di robustezza, e cavi schermati sbilanciati, mentre in ambito professionale si usano connettori più importanti e cavi bilanciati. Si può affermare quindi che, in base al tipo di impiego, avremo diverse caratteristiche fisiche del collegamento tra dispositivi per forma, dimensioni e numero di piedini dei connettori, ma anche diverse caratteristiche elettriche per livello di tensione e tipologia di segnale.
Riferendoci al campo audio professionale, nella maggior parte dei casi troveremo tipicamente connettori di tipo XLR3 (cosiddetti Cannon, facendo riferimento al produttore statunitense Cannon Electric, che per primo li ha realizzati), livelli di tensione secondo lo standard denominato +4 dBu e, infine, segnale di tipo differenziale o cosiddetto bilanciato che permette una maggiore reiezione nei confronti del rumore indotto sui cavi. In realtà potrebbe capitare anche di incontrare connettori TRS o segnali sbilanciati, ma in questo caso ci troveremmo un po’ sopra le righe, e ci saranno degli adattatori che ci permetteranno di rientrare nello standard prima descritto.
Un segnale di linea di questo tipo può interfacciarsi con diverse apparecchiature audio professionali quali monitor da studio, console, sommatori, outboard di vario tipo (es. compressori, equalizzatori ecc...) o direttamente a convertitori A/D o DAW.
Per pilotare bene questi dispositivi a valle, il preamplificatore deve avere un circuito di output capace di "bilanciare" il segnale e restituirlo con una bassa impedenza di uscita. Analogamente a quanto detto per il circuito di ingresso, fino a non molto tempo fa, anche per il circuito di uscita si utilizzavano dei trasformatori che permettevano di bilanciare il segnale ed eventualmente potevano introdurre un ulteriore step di guadagno. Anche in questo caso i trasformatori (con i vantaggi e gli svantaggi descritti in precedenza) sono stati oggi soppiantati dai circuiti elettronici bilanciatori, che possono essere più o meno sofisticati e protetti da eventuali danni che l’operatore potrebbe generare.
Un altro aspetto importante di queste tre sezioni riguarda la tecnologia utilizzata. Qualcosa è stato già detto riguardo la possibilità o meno di usare dei trasformatori di accoppiamento in ingresso e in uscita, ma vogliamo fare chiarezza su altri aspetti che spesso incuriosiscono l’utente, e in particolare su alcune diciture che si sentono ripetere frequentemente, come "Preamplificatore in classe A"... "Preamplificatore a componenti discreti"... "Preamplificatore a valvole".
Cominciamo con il mitico "Preamplificatore in classe A". Ebbene, nessuno di voi vorrebbe viaggiare in seconda classe... pertanto nessuno intende comprare un "Preamplificatore in classe B"!
Eppure un preamplificatore in classe A non è sinonimo di preamplificatore di fascia alta, come comunemente si ritiene!
La classe di un preamplificatore dipende infatti dall’architettura circuitale e di conseguenza dal tipo di "comportamento" che presenta in termini di risposta al segnale in ingresso.
Come mero elenco, utile per aiutare a capire, indico le classi fino ad oggi definite in elettronica: A, B, AB, C, D, E, G, H, T, Z. Ognuna di queste classi presenta, ovviamente, determinate caratteristiche. In particolare, la caratteristica della tipologia in classe A è quella di avere 360° di conduzione durante l’amplificazione di una sinusoide di test, il ché si traduce in una grande linearità nella risposta, priva di "punti morti" di amplificazione in cui possono generarsi distorsioni. Questa tipologia ha però come contropartita una bassissima efficienza che, dal punto di vista teorico, può arrivare ad un massimo del 25%; non si può pertanto pensare di usarla per potenze medio/alte, mentre è facilmente utilizzabile in un preamplificatore.
Veniamo ora al "Preamplificatore a componenti discreti"... qualcuno una volta mi disse: <<scusami se te lo chiedo... ma non potevi usare componenti migliori?>>. Ebbene, una macchina a componenti discreti non vuol dire una macchina mediocre!
I componenti discreti sono quelli che si contrappongono ai circuiti integrati. Agli albori dell’elettronica ogni circuito veniva realizzato utilizzando i singoli componenti elementari. Ogni circuito era costituito da qualche decina di componenti attivi come transistor e mosfet contornati da componenti passivi come resistenze e condensatori. Con il passare del tempo il numero di componenti attivi necessari per stare dietro alla complessità circuitale moderna è diventato di centinaia, migliaia ed oggi milioni di transistor. A questo punto non era più pensabile assemblare circuiti con milioni di transistor e si è pensato di realizzarli già connessi direttamente su un wafer di silicio, ottenendo quindi un circuito integrato.
Nell’elettronica odierna i circuiti integrati sono sostanzialmente lo standard e sono sempre più sofisticati, ma se si vuole assaporare la "pasta" dell’elettronica di base è necessario realizzare un circuito a componenti discreti.
Concludiamo infine accennando al "Preamplificatore a valvole".
In questo caso, oltre a decidere di non far passare il nostro segnale audio in migliaia di transistor che si trovano integrati nei componenti moderni (e optando quindi per l'utilizzzo di componenti discreti), facciamo un ulteriore passo indietro, fingendo di ignorare l'invezione del transistor e scegliendo di gestire il suono con i tubi a vuoto. Questi ultimi permettono di controllare il flusso del segnale audio applicando un’opportuna tensione sulla loro griglia, un po' come si farebbe con la manopola collegata ad una "valvola" di un rubinetto.
Spero, con questo articolo, di avervi fatto entrare con la fantasia in quella scatoletta chiamata "preamplificatore microfonico", in modo che da domani, quando lo guarderete, potrete immaginare la voce dell’artista che viaggia tra i suoi componenti per raggiungere lo stadio di uscita ed entrare nel vostro PC... chissà cosa faranno quei transistor alla voce?
Francesco Ferraro Caruso, ingegnere, è insieme a Miriano Marraghini uno dei fondatori di Sonum, giovane azienda italiana specializzata nella progettazione e produzione di apparecchiature per il settore audio